Proseguendo il percorso iniziato c’è da dire, o meglio ribadire, che il boom delle stazioni radiofoniche cosiddette democratiche si ebbe nel periodo compreso tra il 1975 e il 1977. Questo fenomeno ebbe la capacità di diffondersi in contesti politico-culturali e in ambiti sociali anche molto diversi: le emittenti spuntarono numerose al Nord come al Sud, nei capoluoghi come nei piccolissimi paesini di provincia, in città come in periferia; furono ideate da gruppi, associazioni, circoli, collettivi o da singole persone di cui furono espressione e si resero da subito autonome e indipendenti da sigle e bandiere; nacquero dall’impegno concreto e si ressero sull’ascolto costante di giovani, donne, operai e studenti. E in questi contesti che maturarono idee, valori, motivazioni, e obiettivi a volte in accordo, talora molto dissonanti. Nacquero dall’urgenza di partecipazione che spinse molti giovani e meno giovani a porsi dietro ai microfoni di piccole stazioni radiofoniche.
I giovani si animarono di uno spirito e una tensione nuova che li portò via via ad acquisire una propria e ben definita identità sociale. La musica divenne tra i segni distintivi di questo passaggio che non è azzardato definire epocale: “la musica come veicolo per esprimere se stessi a livello psicologico, sociale e politico”; la musica che come ha scritto Stefano Pivato (nel libro La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana) “non solo esprimeva il «disagio giovanile» ma, soprattutto, accompagnava il conflitto generazionale che separava il mondo degli adulti da quello dei giovani”. All’inizio ci fu il rock and roll, non certo solo come genere, ma per la sua capacità di “imporre la musica come veicolo privilegiato dell’identità giovanile”. Poi ci fu la musica pop, quella dei Beatles e dei Rolling Stones, e la musica folck di Bob Dylan e Joan Beaz e insieme, in Italia, la florida stagione dei cantautori.
E la radio? “La radio seguì con affanno le dimensioni straripanti del fenomeno collettivo”, scrive Giovanni Isola (si veda il suo libro ‘I Transitors del cambiamento’) e poi aggiunge, “un pubblico, quello giovanile, che la Rai prima ignorò, poi blandì in un diluvio di «musica nera» e poi rincorse, prima di perderlo a vantaggio delle meno complesse e ufficiali radio commerciali nella seconda metà degli anni Settanta”.
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